Sgomento, dolore e una triste rassegnazione. Sono questi i sentimenti che si respirano dopo la recente sentenza della Cassazione che ha assolto, confermando il giudizio di primo grado e poi quello di appello, sei ex manager della Franco Tosi di Legnano che erano stati accusati di omicidio colposo plurimo per non aver informato e protetto adeguatamente i lavoratori causando – secondo la Pubblica Accusa – la morte di una trentina di ex operai della ditta che avevano respirato fibre di amianto fra gli anni Settanta e Novanta e che si erano ammalati di mesotelioma pleurico, un tumore killer che si sviluppa stando a contatto con le sottili polveri di amianto e che non lascia scampo. Le motivazioni delle prime due sentenze ricalcano tutte le sentenze milanesi: secondo i giudici, non è possibile dimostrare il nesso di causalità tra l’esposizione del lavoratore e il periodo in cui i vari responsabili si sono succeduti nell’azienda. E ora la Cassazione ha definitivamente scritto la parola fine, lasciando tanta amarezza sia nei familiari delle vittime sia nelle associazioni Medicina Democratica e Associazione Italiana Esposti Amianto, che si erano fin a subito costituite parti civili rappresentate dall’avvocato Laura Mara.
Ed è proprio il vice presidente di AIEA, Valentino Gritta, a scrivere e a inviarci una lunga lettera. “La sentenza di assoluzione ci lascia allibiti ma purtroppo non coglie impreparati. Troppe sentenze dei tribunali e ora anche della Corte di Cassazione sembra che siano palesemente per la tutela di chi trae profitto dal lavoro. La salute dei lavoratori pare essere un optional di cui la parte padronale non se ne debba preoccupare. I giudici preferiscono ascoltare giustificazioni sostenute da teorie di luminari dichiaratamente smentiti dalla scienza. Adesso condannano alle spese processuali anche i ricorrenti: associazioni di volontariato senza finanziamenti pubblici o di magnati. Forse sperano sia un modo per disincentivare la testardaggine di chi porta in tribunale penale responsabili che in tanti casi hanno già elargito un risarcimento alle vittime. Non si può risalire ai responsabili – dicono – e dunque non si può togliere loro la libertà, anche se il nesso tra malattia ed esposizione all’amianto, respirato dove persone innocenti lavoravano tutti i giorni, è riconosciuto. Ammissione di causalità ammessa dal giudice in un altro recente processo, che a breve sarà sottoposto anch’esso sotto le forche caudine della Cassazione, nella cui sentenza specifica che i lavoratori sono morti certamente di mesotelioma per avere respirato l’amianto durante l’attività lavorativa nello stabilimento i cui responsabili erano sotto accusa, ma non c’è alcun colpevole perché ha ritenuto che non fosse possibile risalire a chi fosse responsabile nel momento in cui ha avuto inizio la malattia. È dimostrato che la continua esposizione all’amianto riduce notevolmente la vita, in qualunque momento ci sia stata la prima esposizione; ma nessuno dei successori ha adottato misure atte a tutelare la salute dei lavoratori, anticipandone la morte, anche quando la cancerogenicità dell’amianto era già nota nel modo scientifico internazionale. Per chi ha subito le conseguenze dell’esposizione all’amianto e per tutti gli altri esposti che non sanno fino a quando possano dire di non ammalarsi anche loro, è molto difficile considerare giusta la sentenza di assoluzione”.
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