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18/03/2013Uno studio dell’Università di Bologna individua, per la prima volta, una correlazione tra l’esposizione all’amianto in ambiente lavorativo e un tipo di tumore al fegato, il colangiocarcinoma. L’esposizione all’amianto aumenta il rischio di tumore al fegato. E’ giunto a questa conclusione un team guidato da Giovanni Brandi, docente di Oncologia medica al Dipartimento di Medicina specialistica, diagnostica e sperimentale, in collaborazione con la Medicina del Lavoro dell’Università di Bologna.
Nonostante il colangiocarcinoma sia una forma tumorale relativamente rara (circa 3,5 casi ogni 100.000 abitanti per anno in Italia), si contraddistingue però per un elevato indice di mortalità. Negli ultimi trent’anni, le statistiche hanno confermato un preoccupante aumento dei casi di questo tumore in Occidente, soprattutto a carico di maschi anziani. Un incremento che non può essere spiegato con le cause note della malattia: calcolosi delle vie biliari, patologie congenite, epatiti virali, infezioni da parassiti, steatosi epatica e cirrosi.
I ricercatori bolognesi hanno perciò rivolto la loro attenzione altrove e si sono concentrati sull’analisi degli ambienti di lavoro. L’ipotesi, confermata per la prima volta da questa ricerca, è che le vittime abbiano subito una contaminazione da amianto, materiale largamente utilizzato per decenni, per le sue proprietà ignifughe, in edilizia, cantieristica e meccanica, fino alla sua messa al bando, in Italia, nel 1992.
Le fibre di amianto sono uno dei più potenti agenti cancerogeni noti in medicina. L’esposizione all’amianto oltre provocare il mesotelioma, che ne rappresenta il tumore tipico, induce un accertato aumento di rischio per i tumori del polmone, della laringe e dell’ovaio, mentre ci sono meno riscontri per i tumori dell’apparato gastrointestinale.
L’ipotesi di una possibile associazione tra amianto e rischio di colangiocarcinoma fu formulata già all’inizio degli anni ’80, nonostante ciò, finora, la letteratura medica ha ignorato l’analisi del rischio causato da questa esposizione. Lo studio bolognese, ora pubblicato sulla rivista americana “Cancer Causes and Control” colma, per la prima volta, questa lacuna.
Il team dell’Università di Bologna ha attualmente in corso altri studi finalizzati ad approfondire le conoscenze sul tema e per individuare altre patologie, fino a questo momento non associate al pericoloso minerale. “Nonostante l’amianto sia stato bandito da vent’anni – osserva il professor Brandi – le patologie ad esso collegate, purtroppo, rischiano di essere più un problema del futuro che non del passato, perché la malattia si sviluppa in un arco dai 20 ai 40 anni dalla prima esposizione e quindi il picco epidemico potrebbe non essere ancora stato raggiunto”.